SPAZIO ARTE DEI MORI
Campo dei Mori – Cannaregio 3384/b – Venezia
In mostra dal 16 Ottobre al 26 Novembre 2022
Il perpetuo presente del Gutai.
Opere di Yasuo Sumi e Loco
Vernissage 11 Novembre 2022 ore 18,00
Per informazioni e appuntamenti per visite telefonare a SARA tel. +393479840916.
Per intenzione o per istinto, l’avanguardia occupa sempre la prima linea delle cose, emerge nell’istante in cui le cose nascono o in cui le esperienze lasciano un segno e si trasformano in qualcosa di diverse o, a volte, in simboli e in segnali con cui convivere nel tempo. Non c’è nulla di difficile in tutto questo. È il gesto libero e naturale del presente che definisce se stesso. Il difficile, è mantenere vivo nel tempo il legame nativo con il farsi e il disfarsi di ciò che ci circonda.
Il senso dell’istante e della sua frantumazione entusiasta, il piacere dell’azzardo rischioso, dell’impulso spensierato e del gesto senza filtri razionali, appartengono al movimento Gutai fin dai primi passi della sua fondazione, all’inizio degli anni Cinquanta, e, diversamente da quello che potrebbe apparire, costituiscono meno un’etica della creatività e dell’artista, che una scommessa sulla trasformazione dei linguaggi e delle tecniche. Fra le grandi avanguardie immerse nell'”action”, nell’informe e nei flussi delle performance il Gutai ha avuto il privilegio di poter crescere a lungo nell’ombra, di essere conosciuto per frammenti, senza patire la pena di diventare uno standard dell’istituzione artistica globale e quindi ha potuto rimanere a lungo fedele alla propria innocenza, concedendosi il lusso di un’infanzia prolungata. Il “gioco” del Gutai, celebrato dalla grande mostra del 2013 al Guggenheim Museum di New York, sapientemente intitolata dai curatori, Gutaj Splendid Playground, non è né un gioco teorico, né liberatorio: è il gioco del batticuore e della mano, del bimbo disinibito che immerge le mani nel fango, che rompe gli oggetti col martello, che si traveste, fa dei buchi e impiastriccia il pavimento coi colori.
Il maestro Yasuo Sumi, uno degli artisti fondatori del movimento, presente come pittore e, occasionalmente, anche come performer, fin dalla prima “Gutai exhibition” del 1954, ha portato queste intuizioni allo stadio intimo di una consapevole filosofia di vita, venata di utopia. Le tre, ben note e spesso ripetute, parole d’ordine del pensiero di Sumi “Yakekuso, Fumajine, Charamporan”, ovvero libertà, rifiuto del passato, assenza di serietà e fedeltà alla forma umana originaria, sono, oltre che un credo morale, anche un codice compositivo, un alfabeto di gesti, un metodo che forse, con occhio occidentale, si potrebbe definire come un codice rituale, ma così facendo, si rischierebbe di fare un torto alla naturalezza e all’armonia, nonché alla serenità e alla gioia del gesto creativo che caratterizza la pittura di Sumi, che viene realizzata, da sempre, battendo la tela con ombrelli di legno, facendo vibrare il colore con utensili elettrici, scompigliandolo e striandolo gentilmente con un abaco o con un pettine. È stato l’amico più fedele di Sumi, il prestigioso Shozo Shimamoto, a sottolineare che “what makes Sumi different is that he sticks with the tools that suits him, virtually never changing his approach”. I “tools”, gli strumenti, gli aggeggi, gli arnesi quotidiani, i giocattoli con cui Sumi opera sulla tela sono una costante sospesa nel tempo della sua pittura, un “never changing approach”, una matrice, insomma, che si fa elemento ispiratore, radice e sorgente di un modo di fare rimasto nei decenni fedele a se stesso.
Osserviamo le sette opere di Sumi esposte oggi a Venezia nello spazio di Campo dei Mori. Sono quattro tele dei primi anni Duemila e tre preziosissimi “early gutai work” degli anni 1956-58, cioè vere e proprie tracce del periodo fondativo del movimento. Cosa sono le tele di Sumi? Sono fioriture, infiorescenze che germogliano sotto il battito del legno tamburellato, fiori, ombre o luminescenze, a volte iridescenti a volte sporche e oscure, che affiorano dal basso e poi campeggiano sulla tela o sulla carta, come figure evocative o come scene sbirciate da un mondo altro, a metà fra la vita organica e inorganica, fra la carne e il cristallo.
Lo “Sketch 03” del 1956 e lo “Sketch 05” del 1958 restituiscono un senso drammatico e a tratti violento di questo processo di emersione della matassa segnica. Quello che lo spettatore dovrebbe fare, per osservare le immagini dipinte in tutto il loro valore, è provare a percepire l’emozione e il palpito del momento in cui sono state create, i tremiti di quell’istante che in qualche maniera esse cristallizzano, calcificano, fissano sulla lastra. Nel quadro si percepisce, (o meglio, il quadro ci richiede di percepire), l’ombra dell’artista in azione, seduto a terra, con la tela al suolo, distesa in orizzontale, trattata come una superficie di scavo, colpita, scossa, inclinata, spiaccicata fino a produrre la traccia di un fluido, di un plasma, di un siero o di un raggio che si disfa in flusso gassoso, in onda corpuscolata.
Il confronto fra le opere degli anni Cinquanta e quelle degli anni Duemila rivela una sorprendente continuità figurale ma si nota anche una forte ricerca di maggiore pulizia, quasi una definizione dei contorni, che si associa, inoltre, a una stratificazione ancora più marcata dell’immagine. La pittura di Sumi, come tanta arte materica e informale, ha da sempre manifestato un’indole tridimensionale, una pulsione plastica, che nelle opere degli anni Duemila appare ancora più evidente (e sarebbe da ricordare, a questo proposito, la trasposizione in vetro delle opere del maestro realizzata da un vetraio veneziano nel 2009, quando Sumi fu ospitato dallo Spazio Arte dei Mori per un evento collaterale della 53° Biennale d’arte contemporanea). Il “Work 43” del 2007, ad esempio, mette sotto gli occhi dell’osservatore una scena che ha un dinamismo sconosciuto alle opere precedenti, che al limite proponevano una stratificazione maculata di colature successive. Nel “Work 43” c’è invece qualcosa che si muove. Nel quadro si dà un evento luministico. Guardandolo, viene spontaneo pensare a qualcosa di simile a un temporale, a una nube scura con un candore di elettricità che si scatena ma la pittura di Sumi non è mai una rappresentazione diretta della realtà, ne è al limite uno studio o un’evocazione spirituale. Il “Work 43” è luce dispersa, rimbalzo fluorescente, frangia, interferenza, energia, luce che però trova anche una sua consistenza colloidale, ectoplasmatica, madreperlacea, come la scia di una lumaca.
Le opere di Loco, (Hiroko Loco Mardegan), che accompagnano in questa esposizione i dipinti di Yasuo Sumi mettono in evidenza contemporaneamente la prossimità e l’esigenza di rinnovamento del linguaggio Gutai nel mondo contemporaneo. Loco intreccia i fili della storia Gutai per dare voce a una nuova anima bambina. Si potrebbe dire che se in Sumi e in altri artisti fondatori dell’avanguardia giapponese il dipinto approda a una simbiosi fra lo spirito e la realtà naturale, fra segno e figura, in artisti come Loco si crea una simbiosi fra il motto di spirito e la realtà, o, per esprimersi con una metafora più raffinata, una fotosintesi della pittura che sprigiona l’energia della festa.
Nata nel 1976, Loco ha riconosciuto nel lavoro di Sumi e di Shimamoto la sua massima fonte di ispirazione ma, forse proprio per questo, non lo ha solo ripreso bensì, piano piano, lo ha stravolto a modo suo. Nei due quadri “Whirlpool 1” e “Whirlpool 2”, l’eredità della “tradizione” pittorica Gutai si riflette ancora come un codice d’obbligo, come una fonte in corso di studio. Già in queste due opere, però, realizzate alla fine degli anni Novanta, si vede una piccola novità: il gorgo di colore che si disfa in mulinello acquoso (“whirlpool” significa appunto “vortice”) non è massa informe di colore sparso, espanso, fluente qua e là. Il colore lascia intravedere una geometria, un pattern basico, che è la geometria della circonferenza, del tondo, del cerchio – il cerchio è la figura cardine di Loco e non a caso lo si ritrova per ben due volte nelle “o” del nome dell’artista – che si sovrappone come un timbro alla fiumana coloristica e in qualche modo la limita, la devia. In quei tondi, anzi, messi molto in evidenza in “Whirlpool 2”, si può forse riconoscere l’impronta di un bicchiere di carta cioè un primo tentativo di utilizza dell’oggetto che, insieme con la figura tonda, sarà il principale mezzo espressivo dell’artista o almeno l’elemento identitario del suo vocabolario pittorico.
Negli anni Duemila, Loco sarà nota al pubblico e riscuoterà l’apprezzamento dei maestri soprattutto per la creazione di un copricapo sferico, una sorta di maschera o di costume per la testa intera, realizzato graffettando fra loro decine di bicchieri di carta. Loco realizza l’opera forse ricordandosi anche dell’esempio rappresentato dal “Vestito elettrico” realizzato nel 1956 da Tanaka Atsuko, l’artista donna membro fondatore del Gutai. Anche il copricapo di Loco, infatti, è pensato per essere indossato ma mentre il vestito di Tanaka era una sorta di drammatica denuncia corporea della saturazione elettro-luminosa degli ambienti urbani, (e potendo teoricamente rilasciare uno shock elettrico creava un effetto suspense inquietante) il cappello a forma di globo creato da Loco è uno strumento “per vincere la timidezza”, per stimolare la simpatia e il riso cioè, in fondo, uno strumento di conforto e di amicizia.
Dal copricapo sferico prende forma e si dirama un piccolo sistema di forme e di figure, ben visibile nelle opere del 2007, composto di cerchi che si aprono come oblò e spioncini sulle tele, di sfere, di palline che decorano il vestito della bambolina alter ego che sale sulla scena del dipinto (anche in queste opere si riconoscono evidenti omaggi al lavoro grafico di Tanaka Atsuko, forse a sottolineare la permanenza consapevole di un’identità femminile d’avanguardia).
Guardiamo il balletto in nove movimenti dell’opera “Spheres” o lo stupore che traspare dalla bimba burattina in “Round Window”. Con artisti come Loco, il Gutai di oggi, il Gutai degli anni Duemila, ha acquisito due importanti consapevolezze. La prima è che arte e design grafico, originalità e decorazione, pittura e fumetto sono mondi confinanti, che si contaminano e si saccheggiano reciprocamente senza definire a priori né orizzonti né scale di valori. La seconda è che non si può essere veramente pittori, e forse neppure artisti, se non si fa proprio anche il linguaggio della parodia, della burla, della comica, se l’opera non contiene nel suo tessuto segnico e figurale anche una traccia dell’autore che ride di se stesso o almeno che sorride: ma di questa virtù lo splendido gioco della rivoluzione Gutai ha sempre avuto chiara coscienza.